Poco dopo essere arrivato a Melbourne, gli amici di “We got Game” mi chiesero come fossero i campetti quaggiù.

In effetti la domanda può essere curiosa, perchè i campetti sono un po’ un mondo a se stante, hanno le proprie regole, i propri frequentatori abituali, il proprio modo di essere.
Dall’altra parte del mondo quindi il campetto potrebbe una cosa completamente diversa da come viene inteso in Italia.

Partiamo dal nome. Le prime volte che qualcuno mi chiedeva cosa facessi dopo lavoro io sicuro del mio inglese, rispondevo sempre “i’m going to playground”, tant’è che la parola playground si usa a volte anche in Italia.
Ho notato un po’ di sguardi straniti nell’ascoltare la mia risposta, ma credevo fosse un problema di pronuncia.
Dopo un paio di settimane ho finalmente scoperto che qui per “playground” intendono il parco-giochi per bambini.
Lo sguardo stranito era quindi dovuto all’immagine di un barbuto italiano di quasi cento chili che gioca sulle altalene per sfogarsi dopo una giornata di lavoro.

Nome a parte, anche la sostanza è diversa.
La cosa che mi ha colpito di più è che pur essendo il basket non troppo popolare da queste parti, ci gioca un sacco di gente che non ha mai fatto un allenamento di pallacanestro in vita sua.
In Italia è veramente raro vedere qualcuno giocare al campetto senza che si sia mai allenato “seriamente” in qualche squadra.
C’è da dire che il clima più mite dell’Australia allunga di un bel po’ la stagione outdoor, rendendo quindi di fatto possibile a chiunque di giocare 12 mesi all’aperto senza dover rinchiudersi tra quattro mura, con un allenatore che ti strilla dietro.

RMIT

RMIT

La controconseguenza di tutto ciò è che il livello è tendenzialmente basso, alle volte bassissimo, tanto da dover andar piano per evitare di travolgere qualche avversario che in realtà aveva solo intenzione di sgranchirsi le gambe dopo l’uni, senza alcuna velleità di vittoria.

Il che comunque non vuol dire che non si perda mai, anzi. Mi è capitato, il primo od il secondo giorno, di aspettare per quasi 40 minuti prima di riuscire a giocare e di perdere 7-0 contro dei mini-cinesi in scarpe da passeggio, che probabilmente era la terza volta che giocavano a basket in vita loro.
Però è così. Tirano tutti storti, fanno cose che non ti aspetteresti mai, sono stilisticamente brutti come Giuliano Ferrara in tutù, ma ti mandano a casa in 3 minuti. E tu, saluti fingendo di essere non arrabbiato, prendi la bici e torni a casa.

Il campetto che frequento è esattamente nel cuore di Melbourne, nel centro della “City” che più centro non si può.
Sono sei metà-campo una attaccata all’altra, contornate da grattacieli che per la maggior parte sono i dormitori della RMIT, una della università cittadine.

Hisilicon Balong

RMIT

Cinque metà-campo sono monopolio degli asiatici, mentre una metà-campo è multientica.
Australiani, sudanesi, francesi, italiani, asiatici espatriati dai campetti accanto, aborigeni. Di tutto e di più.
La regola numero uno è che i passi di partenza non esistono.
La regola numero due è che l’area è più intasata del padiglione del Giappone, per cui se non c’è vento (cosa che praticamente non capita mai qui), l’arresto e tiro diventa un’arma insostituibile che ti evita di andare ad infilarti in mezzo a 5-6 persone che campeggiano sotto il canestro.
La regola numero tre è internazionale e -bucato permettendo- cerco di promuoverla il più possibile nella nostra versione maccheronica.

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San Giovanni non fa inganni alias balls don’t lie.

Anche a 16000 km di distanza il credo unico e fondamentale dei campettari è e resterà sempre quello.

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