I-crisis

Articolo a firma di Paolo Tex Tessarin

Dicembre è tradizionalmente mese di bilanci economici, di analisi di dati micro e macro, di famiglie ed aziende che tirano le somme e mass media che improvvisano teorie economiche da dare in pasto ai cittadini come noccioline. Tutto questo assume ancora più rilevanza in tempi di crisi e gli acquisti natalizi diventano la più facile cartina di tornasole di come gli italiani vivano e percepiscano la propria condizione economica. Il dato generale indica una flessione nei consumi attestata intorno all’8% rispetto all’anno precedente: in realtà la singola cifra di per sé può dire poco, dato che la percentuale andrebbe disaggregata per area geografica, per settore merceologico di consumo e chiaramente per categoria sociale. Preferisco però andare ad analizzare la “percezione della ricchezza” che gli italiani oggi hanno, più che la ricchezza espressa dai nudi indicatori economici, e voglio provare a farlo attraverso un paio di esperienze personali dirette.

Mercato locale Vs. Mercato globale

Uno di questi punti di vista è quello di venditore di prodotti artigianali al più classico dei mercatini natalizi. Noi torinesi, il nostro mercatino, lo chiamiamo Baloon. Chi conosce la città sabauda sa che qui la povertà esiste, esiste eccome, ed è una povertà pre-esistente l’avvento della crisi, è verace, quasi romantica se si pensa alle connotazioni neo-realiste che essa assume in certi spaccati. In questo pezzo di Torino si ammassano le categorie sociali classicamente colpite dai meccanismi di esclusione dalla società, cioè gli immigrati vecchi e nuovi, di prima o seconda generazione, sono i barboni, i tossici, i drop out, i reietti per i quali nessuno si è mai sognato di indire proteste e manifestazioni di piazza, figurarsi bloccare una città intera. La parte più interessante è stata però il poter colloquiare ed avere una visione diretta dell’approccio alla spesa da parte della classe più coinvolta dalla retorica della crisi: la classe media italiana, allenata a lamentarsi da sempre, figurarsi adesso che ne ha motivo. Ciò che mi ha colpito di più è che persone con un reddito mediamente elevato ce ne sono ancora molte (e vivaddio che ce ne sono): chi ha la fortuna di avere capitale da spendere non lo fa, la circolazione della moneta è bloccata, e così invece di innescare attraverso i consumi un circolo economico virtuoso, si resta al palo, immobilizzati a propria volta dall’immobilismo della classe politica. Viviamo una fase in cui gli eletti non sono in grado neanche di dire con certezza quali e quante imposte saranno richieste e gli stessi giornali, aldilà di una retorica fiduciaria di facciata, sembrano diffondere scientemente la paura ed il panico. L’orchestra mediatica sembra proporre una realtà troppo discordante dal quotidiano vissuto dal cittadino. La retorica del disastro economico ha invaso ogni campo, e quello psicologico è quello fondamentale: aldilà di quale sia la reale condizione economica personale siamo tutti in crisi e ci sentiamo tutti in crisi, anche chi quest’anno ha guadagnato uguale o di più, anche chi ha in qualche modo aumentato i propri consumi, perché in qualche modo ci sentiamo minacciati, metaforicamente aggrediti da chi finge di spargere fiducia ed ottimismo ma in realtà cerca semplicemente di tenerci tranquilli, cheti ed immobili, ammansiti davanti ad un monitor dei loro network multimediali. Questa mia percezione strumentale della crisi è stata poi esacerbata dall’esperienza diretta come sindacalista FIOM in una Società del gruppo Intesa San Paolo (eh lo so, sono un ossimoro vivente, ma d’altronde, c’è la crisi no?). La cosa più sconvolgente è che al tavolo delle trattative ad aver pronunciato più volte la parola “crisi” è stato proprio il Responsabile di Intesa San Paolo, principale gruppo bancario in Italia con buone se non ottime entrature sui banchi dei governi recenti, oltre che continuo benefattore di aiuti di Stato diretti ed indiretti. Se dunque sono loro a parlare di crisi, con un bilancio fortemente in attivo e fondo pubblici che continuano ad arrivare con una puntualità inusuale nel Belpaese, forse c’è davvero qualcosa che non va: la “situazione economica contingente” viene usata come pretesto per erodere diritti acquisiti e redditi da impiegati, di quella che una volta era la già citata classe media che ora si trova in mezzo ad un guado: la soglia di povertà si avvicina, in maniera lenta e continua, ma nello stesso tempo ti dicono, in un certo senso in maniera inopinabile, che se hai uno stipendio devi ritenerti fortunato, e si entra in un circolo vizioso all’interno del quale si continua a guardare dietro di sé con paura e sospetto, ci si accontenta delle briciole, e si viene risucchiati in un meccanismo che porta dritto dritto alla guerra tra poveri, innescata dalla loro stessa retorica del “tutti contro tutti” e del puntare il dito contro certe categorie sociali piuttosto che altre.

mercato7(vista aerea del “baloon” torinese)

 Come reagire? 

Mettendo insieme i diversi tasselli, diventa difficile non pensare che la crisi venga utilizzata da alcuni settori dominanti per riordinare la Società secondo i loro interessi e le loro ideologie (ebbene sì, le ideologie esistono ancora, anche se radicalmente mutate rispetto al Secolo Breve). La strategia globale sembra essere quella di ridurre il cittadino ad un mansueto ed obbediente cagnolino, la cui unica occupazione sia cercare di sbarcare il lunario, spendere tutte le proprie energie nel lavoro per poi ritrovarsi la sera triste e sconsolato a fissare una scatoletta dalla quale ti raccontano i sacrifici che tu vivi quotidianamente sulla tua pelle. C’è qualcosa che non funziona se ci ritroviamo oppressi e rattristiti da quello stesso modello sociale che fatichiamo per sostenere ogni giorno.
Se in questo secolo nuove sono le ideologie e le relative forme di oppressione, altrettanto nuove devono essere le risposte dei cittadini indignati. Forse davvero è giunto il momento di rifiutare la vita quotidiana che ci viene imposta dal lavoro e dai messaggi massmediatici tutti uguali ed uniformati verso un livello culturale sempre più basso: ridiamo in faccia ai modelli comportamentali che ci vengono propugnati, rifiutiamoci di introiettare il dogma della crisi e del circolo produci-consuma-crepa. Mi viene da pensare ad una scritta che campeggia su un muro della Cuba castrista: ” En tiempos de crisis mantener la sonrisa es un acto Revolucionario”, ed in effetti sembra essere proprio così. Reagiamo in maniera realmente alternativa alla negatività diffusa ed avvilente ripartendo dalla socialità e privilegiando il micro rispetto al macro (a Genova 2001 si discettava in termini di glocal/global), riprendiamo a creare comunità di cittadini al posto dei distopici agglomerati urbani, rispondiamo alla crisi dicendo a muso duro che i loro modelli li rifuggiamo ma dovremmo, anzi dobbiamo farlo sin da oggi. Un’immagine, anch’essa autobiografica, che mi fa spesso sorridere in tono auto-ironico, è relativa ai momenti in cui mi sorprendo ad avvilirmi della scarsa disponibilità economica, e lo faccio su whatsapp da uno scintillante i-phone all’altro con la mia compagna: ma davvero sono tutti essenziali questi modelli di consumo diffusi grazie alla tecnica dei bisogni indotti? A Torino il 9 dicembre la città era stata sconvolta dalle manifestazioni, 15 giorni esatti dopo, la città era ugualmente sconvolta dall’ingorgo in uno dei principali Centri commerciali della città per gli acquisti natalizi: mi rifiuto di pensare che questa sia la nostra risposta alla crisi, che i sacrifici vengano fatti per permettersi insalubri banchetti natalizi pantagruelici, montagne di rate per acquistare SUV compensativi mancanze sessuali, oggetti tecnologici d’ultimo modello che diventano prolungamenti quotidiani del nostro corpo, per finire in serate tutte uguali davanti a programmi televisivi sempre più omologati verso una piattezza avvilente.

BKpi7MzCYAIvmIl

Ma noi davvero vogliamo proseguire su questa strada all’infinito, marciando all’unisono con una rigorosità da autoritarismo socialista verso un baratro senza ritorno? Siamo destinati alla povertà, e forse ancor di più all’infelicità: possiamo opporci a questo da subito, basta cominciare domani mattina ad affrontare il quotidiano in opposizione ai loro dogmi.
Odio citarlo, ma mi viene in mente il Vasco di vent’anni fa, che si chiede cosa succederebbe “se da domani davvero tutti quanti smettessimo”: è facile immaginare a cosa lui si riferisse, ma potremmo considerare in egual modo come droghe la TV ed i mezzi di comunicazione di massa, l’omologazione nei gusti e nei consumi, il sottomettersi acriticamente ai loro modelli. Massì ha ragione il Blasco, smettiamo da domani mattina: t’immagini la faccia che farebbero?

Share Button

Comments

comments

Luca Murta G. Cardoso
luca.murta@gmail.com

Gioco a basket e sono appassionato di fotografia, viaggi e politica. Mi sono laureato in Economia indirizzo business management. A seguire ho eseguito un master in web marketing ed un corso in project management al Politecnico di Milano. Per sopravvivere, faccio quello che viene definito come "project manager" anche se è troppo altisonante come nome. In realtà mi diverto :)