3 cose che ci insegna Foodora

Più o meno tutti avrete sentito parlare del caso di Foodora: una app tedesca che permette agli utenti di ordinare un menù dal proprio ristorante cittadino e farselo consegnare a casa da dei giovani ragazzi in bicicletta. Il tutto stando seduti sul divano, col proprio smartphone.

Bello, bellissimo! Sulla carta.

Il caso è scoppiato poichè i fattorini hanno visto abbassarsi la loro paga da 5€ lordi all’ora (già di per sè bassa), ad una paga a cottimo di 2,70€ lordi a consegna. Il che, come potrete immaginare, significa tempo perso ad aspettare l’ordine del cliente, senza essere pagato un picco.

Le reazioni sono state forti, di sdegno ed in totale appoggio ai fattorini.
Il caso di Foodora è esemplificativo e secondo me permette di fare un po’ di riflessioni.

Questa app ha creato nei consumatori un bisogno: “voglio poter avere i piatti del mio ristorante preferito a casa mia, ordinandoli dal mio smartphone”. L’idea è innovativa ed apprezzabile, con un’idea di marketing -la consegna in bici che fa subito radical chic e green- geniale.
Il bisogno che crea in noi è però futile e non crea benefici per la società.
Se a questo aggiungiamo che crea invece un lavoro sottopagato e precario, inizia ad esserci un problema.
Bisogno consumistico futile + nessun beneficio per la società + paga bassa = problema.

Si sono letti in giro alcuni commenti simili a questo: “Foodora fa bene a pagare i fattorini il meno possibile, è ciò che tutte le aziende fanno. Se un fattorino si licenzia perché si sente sfruttato, Foodora può assumerne facilmente un altro allo stesso prezzo, perché ci sono tante persone che vogliono fare i fattorini. Inoltre i fattorini guadagnano poco, ma comunque più di zero che guadagnerebbero stando a casa”.

 

È il libero mercato, belli.

Peccato che in situazioni di crisi economica (e in una situazione in cui il consumatore non sa quanto prenda il fattorino), sia un gioco al ribasso.
I fattorini non hanno possibilità di scelta poichè non hanno alternative lavorative, Foodora ci marcia su abbassando i salari, stando però ben attenta ad apparire green e moderna. Altre aziende che hanno bisogno di un target simile di lavoratori, possono a questo punto ridurre i propri stipendi fino a 2,71€ a consegna (ossia una qualsiasi cifra irrisoria in più di quel che paga Foodora) sapendo di trovare giovani virgulti pronti a lavorare per loro.
Il circolo vizioso è creato.

Cosa fare allora?
Le soluzioni credo possano essere 3:

1) informarsi, informarsi ed informarsi. Sapere cosa c’è dietro una bici green è nostro dovere di consumatore.
Credo che sarebbe inoltre buona cosa se ogni azienda pubblicasse gli stipendi che dà al proprio lavoratore.
Io consumatore voglio sapere se acquistando da Foodora sto creando il gioco al ribasso di  cui abbiamo parlato sopra o se invece sto dando un lavoro dignitoso ad un universitario;

2) semplificare e facilitare la creazione di impresa. Il libero mercato può essere anche questo.
Se dieci fattorini Foodora amano il proprio lavoro, ma sono stufi della loro paga da fame, dovrebbero aver la possibilità, in maniera snella e non troppo dispendiosa, di associarsi e creare un’attività economica che faccia concorrenza a Foodora, che sarà quindi costretta ad alzare i salari per non trovarseli come concorrenti.
È il libero mercato, belli (che non è il male assoluto, ma che spesso anzi crea circoli virtuosi).

3) Lavorare sull’etica imprenditoriale!
Finchè avremo una classe imprenditoriale convinta che il bene della società sia far arrivare in casa di qualcuno dei piatti di ristorante, consegnati da persone che non guadagnano di certo “[…] una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, avremo un problema.

Sempre sia lodato Adriano Olivetti.

Sempre sia lodato Adriano Olivetti.

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Luca Murta G. Cardoso
luca.murta@gmail.com

Gioco a basket e sono appassionato di fotografia, viaggi e politica. Mi sono laureato in Economia indirizzo business management. A seguire ho eseguito un master in web marketing ed un corso in project management al Politecnico di Milano. Per sopravvivere, faccio quello che viene definito come "project manager" anche se è troppo altisonante come nome. In realtà mi diverto :)